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Dopo La Fura. L’assalto alla diligenza.

 Leggo delle polemiche sui disagi subiti x partecipare alla performance della Fura dels Baus alla Cava di Carrara nell’ambito di Lunatica.

Penso prima di tutto al coraggio e all’impegno organizzativo intrapreso x uno degli eventi + forti dell’estate.
E’ 1/4 di secolo che seguo la Fura (vedi il testo che ho scritto nel 2001 x il RavennaFestival) e so che è nella radicalità delle loro azioni che risiede il principio attivo di un teatro emozionale, non drammaturgico, spiazzante, debordante.
Ciò che è stato visto con gioia partecipativa nella cava di Fantascritti, luogo a suo modo radicale, aspro e inquietante, ha confermato questa qualità direttamente proporzionale all’impatto percettivo e al felice spiazzamento dello sguardo.
A controbilanciare questo dato c’è il problema dei flussi degli spettatori in andata e ritorno dalla Cava con pullman che alcuni hanno sostenuto insufficenti.
Ciò che ho riscontrato come problema riguarda principalmente il percorso difficoltoso e lento dei mezzi x via delle strettoie e il traffico in città. I mezzi potevano essere sufficenti…
Ma se devo prendere una posizione netta difendo, senza dubbio, il coraggio organizzativo e la scelta culturale de La Fura.
Per quanto riguarda il futuro propongo una cosa precisa: abituarsi a seguire con più attenzione la domanda culturale e porre una moratoria all’offerta di spettacoli. Utilizzare il web per seguire le indicazioni e i feedback degli utenti, e quindi  prenotare, registrare i profili dei diversi target e a questo punto premiare con attenzioni particolari. Chi si fosse prenotato (con un form particolare, teso a stringere relazione con l’ente pubblico promotore) avrebbe potuto avere una corsia preferenziale, come con il telepass.
A questo punto lancio un’indicazione precisa: utilizzare gli eventi come occasione ideale per sollecitare, sondare e qualificare la partecipazione attiva dei cittadini, sperimentando modalità di gestione e progettazione del nuovo spazio pubblico, il web. Così com’è stato fatto dal teatro 2500 anni fa.
Per concludere con la questione della Fura alla Cava. La domanda da fare è: perchè al ritorno non si è organizzata un sistema di file (a segmenti, per velocizzare l’accesso ai pullman, come nei varchi aereoportuali) per risolvere il problema dell’assalto alla diligenza?

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ecco a seguire la nota che scrissi x il Ravenna Festival 2001

Rivedo la Fura dels Baus nelle cave di Carrara in uno scenario potente e mi viene voglia di ripescare un testo che scrissi su di loro qualche tempo fa. E rifletto a quanto poco pensiero viene associato a questi eventi…

Il grado zero dell’ossessione

“Obs” (http://obs.fib.upc.es/obs/ ), la nuova produzione de La Fura dels Baus, può diventare l’occasione per una riflessione articolata sul valore di una teatralità dirompente che si misura più con l’impatto sensoriale che con gli statuti estetici della produzione artistica.
In quella loro radicalità performativa, non c’è solo la ricerca di nuovi linguaggi scenici (la sperimentazione artistica e teatrale non deve più necessariamente giocare all’invenzione di soluzioni avanzate di rappresentazione, bensì sull’intensità) piuttosto quella di nuove condizioni di percezione e di coinvolgimento. La Fura ha scelto, dopotutto fa parte del loro codice “genetico” culturale, catalano e dionisiaco, di esasperare i toni e i modi. Hanno scelto di giocare sull’ossessività, la risultante della ripetizione e degli eccessi. Obs: obsession.
Un gioco brutale ma intelligente che va oltre il dato concettuale di tutt’altra sperimentazione , magari affascinata dalle teorie di Roland Barthes sul “grado zero della scrittura”, alla ricerca di una rifondazione dei codici espressivi.
Il loro, a confronto, potrebbe sembrare come un moto regressivo, ma rivela invece una chiara e forte tensione che guarda alla necessità, contemporanea se non futura, di sfiorare quell’autenticità perduta in un mondo sempre più mediato dalla rappresentazione mediatica.
L’autenticità del corpo che sente, che pulsa, che reagisce, che rompe la cornice mentale in cui è intrappolato dalle convenzioni.
Potremmo dire che il loro è un lavoro basato sul “grado zero dell’ossessione”: sul testing delle condizioni limite in cui trascinano gli spettatori, perlomeno quelli più giovani, quelli più disposti a mettersi in gioco, in spettacoli campali più prossimi ad una guerriglia che ad una rappresentazione, anche se ne hanno fatti per palcoscenici all’italiana (come “Faust”), ma non è questo il caso. Quindi niente paura. O meglio: si, paura. Un pochino ,quanto basta, per mettere in circolo quell’adrenalina che “fa teatro”. Teatro? Si, quello più vicino a Dioniso che ad Apollo. Quello “panico” (da Pan, un “avatar”, un altro modo per definire il dio Dioniso). Quello che si basa sulla partecipazione attiva ad una sorta di rituali postmetropolitani che fanno pensare ai raves.
Quello che fa dell’alterità sensoriale il valore fondativo dell’opera.
Trattare di uno spettacolo in questi termini è tutt’altro che pretestuoso, anzi è opportuno per contestualizzare una pratica artistica della “violenza” in una dimensione culturale, possibilmente comprensibile e condivisibile. Altrimenti rischia di rimanere solo come un evento di lorda spettacolarità che può attrarre sia entusiasmi infantili che rifiuti moralistici.
Vale la pena affrontare proprio le caratteristiche di quell’alterità che vengono sondate da un’esperienza come questa di “Obs”, opera di un teatro musicale che cerca il conflitto.

Il corpo come luogo di sperimentazione
La domanda di alterità ce la portiamo dentro in tanti, anche quelli che “tutti a modo”, con la cravatta anche intorno all’ipofisi, credono che la vita si svolga dentro canoni prestabiliti.
Sono a volte proprie questi individui che rivelano le forme di schizofrenia più pericolose, decisamente dissimulate da un ordine sociale che spesso legittima le forme di cinismo e di violenza egoista più acute.
Attenzione però a quando si tratta di alterità, cercare “altro” e fuori di noi non significa necessariamente quell’ “andar di fuori” indotto esclusivamente dall’abuso d’alcool o di sostanze stupefacenti.
Le dimensioni più interessanti in cui trova luogo l’alterità sono quei stati modificati di coscienza che derivano dalle pratiche rituali della trance e della possessione che nella nostra contemporaneità sono ormai oggetto di ricerca etnologica, si pensi solo al fenomeno del tarantismo salentino che fino a qualche decennio fa perpetuava la valenza dionisiaca delle ritualità della “grecìa” .
Ma ci sono alcune esperienze di “deep listening” che danno luogo a intense emozioni acustiche che attraverso l’ascolto profondo possono far diventare il corpo-luogo di sperimentazione, condizioni che, per altri versi (l’iterazione collettiva del movimento), attraverso la techno arrivano in situazioni particolari, come i raves, a livelli decisamente surriscaldati.
Ci sono altre situazioni che possono essere individuate tra quelle possibili, dissimulate in una società dello spettacolo che tende ad esasperare e a confondere i piani della rappresentazione, e che proprio per questo acquistano un’importanza specifica perchè fanno venire a galla le contraddizioni di una società mediata ed inautentica.
E’ tra queste, azioni esemplari e circostanze che potremmo definire di “nuovo dionisismo”, che spicca la Fura dels Baus, liberando il suo “volume di fuoco” attraverso l’azione dirompente del suono.

L’insofferenza verso il comune sentire
Entrare con l’ascolto in un mondo sonoro affina la conoscenza intuitiva, una disponibilità che è stata definita anche l’”essere afferrati”: l’essere posseduti dal flusso organico dei suoni, entrando in risonanza.
Valori che è possibile riscontrare sia nelle composizioni iterative di Steve Reich e Terry Riley che nel Gamelan balinese, sia nelle ambient music di Brian Eno e i Frippertronic di Robert Fripp che nel “sama” derviscio e nelle immersioni techno-trance.
Valori che esistono da sempre se consideriamo che il suono è la base primaria di quasi tutti i culti. Valori che le sovrastrutture culturali hanno mediato a tal punto da renderli quasi esoterici, eccezioni, alterazioni.
Quei valori d’intensità sensoriale acuta sono sempre più rari nella nostra civiltà, talmente satura d’informazioni che ne svaluta ormai il valore d’uso, sottraendo senso allla comunicazione, un processo quest’ultimo che da una parte può essere (forse, se s’intraprende la via creativa al futuro digitale) riattivato dall’evoluzione delle tecnologie interattive e dall’altra da una fisicità che riconquisti una posizione forte nello scambio sociale.
Quest’insorgenza di fisicità è il segnale che è opportuno cogliere se vogliamo comprendere quanto sia scatenante la necessità di conoscenza diretta e di esperienze psicoattive nelle nuove generazioni. Ancor più oggi in un mondo sempre più complesso e sempre meno disposto ad essere interpretato dalle ideologie salvifiche.
Le illusioni umaniste sono dissolte: è il mondo, la complessità della natura, ad essere la misura dell’uomo e non il contrario.
Il corpo diventa il luogo dell’impatto estremo, vero, con la realtà: un luogo di sperimentazione, anche traumatico se si pensa ad alcune forme di “piercing”. La dimensione collettiva in cui venivano liberate le energie antagoniste e libertarie venti-trent’anni fa non ci sono più ma vengono ricreate in forme d’aggregazione tribale, rivendicando orgogliose insofferenze verso il “comune sentire”.

Raves: zone temporaneamente autonome
La ricerca diffusissima di alterazione sensoriale non riguarda solo il consumo di droghe più o meno pesanti ma la capacità di sollecitazione del proprio corpo attraverso la veglia, la fatica, lo stress psichico. Si tratta con la propria adrenalina, si scatenano i recettori meno utilizzati del cervello. Aspetti che non possono essere liquidati come una mera disfunzione generazionale, non più perlomeno.
Il fenomeno dei “raves” è sintomatico: si creano piccoli mondi-paralleli fuori dagli orari della normalità, in cui vivere al massimo grado, in una sorta di “potlach”, le cerimonie dello spreco sacrificale. In questi contesti, vere e proprie “zone temporaneamente autonome”, si mettono in gioco energie psicofisiche potentissime: parlare di trance non è fuori luogo. Si tratta di aspetti ibridi, urbani, di quelli stati alterati di coscienza di cui tanti studiosi, sociologi e antropologi, stanno trattando da un pò di tempo a questa parte. Tra questi George Lapassade è uno di quelli che seppe coglierne il valore al di fuori del contesto antropologico in senso stretto: visse in prima persona ,come performer del Living Theatre, la necessità teatrale di esprimere quella radicalità fisica senza finzione. Erano gli anni Sessanta e quel teatro di guerriglia libertaria portava in Europa il contagio della prima rivoluzione sessuale. E nel 1969 , nell’incontro con i Gnawa in Marocco,impararono molto di quella “verità del corpo” di cui aveva scritto, nel lucido delirio, solo Artaud. Alterità pura.
Oggi, superate le avanguardie, le tendenze e le ideologie, rimangono sul campo gran parte delle stesse domande.
L’estasi intesa come rottura dell’inerzia statica del comune sentire è una ricerca che vale la pena intraprendere.

L’orgia dionisiaca della tribu’ elettronica
E’ su questo terreno che fa incursioni costanti la Fura , attuando una strategia collaudata, quella che vede coniugare la selvaggeria delle feste paniche catalane con le nuove sensibilità cyber.
Dai primi happening devastanti come “Accions” sono riusciti ad evolversi sul piano spettacolare saturando la scena (campale, condivisa con il pubblico) di suoni techno ed immagini elettroniche. La Fura dels Baus da più di quindici anni percorre le scene internazionali come l’”orda d’oro” di Gengis Khan: invadono con le loro azioni furiose, seminano panico spettacolare e vanno oltre senza erigere steccati, senza rinchiudere in definizioni ciò che fanno.
Conquistano attenzioni perchè sanno mettersi in gioco con un’estrema determinazione e riescono così a mettere in gioco, a coinvolgere gli spettatori in eventi che non è eufimistico definire tribali.
Gli eventi furiosi della prima Fura, come “Accions” (1983), “Suz a Suz”(1985) e “Tier-Mon”(1988) non avevano una struttura drammaturgica (se non minima), procedendo per onde d’energia, come coreografie selvatiche in cui, oltre alle gestualità ieratiche dei performers (spesso ispirate al “butoh” giapponese, la “danza delle tenebre”, in cui i corpi bianchi come larve evocavano atmosfere di catastrofe nucleare) si radicalizzava lo scontro teatrale con la scesa in campo di macchinerie mostruose: “macchine celibi” ed altri ordigni che producono rumori od odori. Una pratica di “automatics” (così chiamano le loro macchine) che fa pensare alle gesta dei californiani del Survival Research Laboratories che organizzano veri e propri rodei automatici, macchinici, apocalittici.
“M.T.M” (1994)si definisce poi “techno-opera” : una cyber-performance a tutti gli effetti. Spettacolarità satura di visioni elettroniche proprio per esasperare fino al parossismo psichico il danno provocato dalla telecrazia globale. E’ un modo drastico per denunciare che il potere mediatico annichilisce le coscienze. La Fura rilancia coprendo il potere delle immagini con il caos sonoro, più fisiologico, rivendicando un’ispirazione: ricreare il “Gran Teatro del Mondo” di Calderon de la Barca, in una proiezione tecnologica, digitale, di fine millennio.
“Manes” (1996)è invece uno spettacolo che richiama le modalità originarie de La Fura, quelle più semplici e brutali che vedono acqua spruzzata e fiaccole agitate contro gli spettatori, un delirio, brado ma coinvolgente, efficace come pochi altri eventi in giro per le scene.
Con questo spettacolo la Fura sembra ricercare la sua spontaneità , dopo qualche anno di progettualità di lusso: vedi l’inaugurazione dei Giochi Olimpici di Barcellona, qualche buona committenza (come la Pepsi) , con “MTM” uno spettacolo di grande impatto ma sin troppo strutturato in un rigido impianto scenografico e audiovisivo.
Tornano ciclicamente a quell’orgia dionisiaca che li aveva caratterizzati e che sembra corrispondere proprio alla domanda che molti giovani spettatori si portano dentro.
La scena privilegia così l’azione dei corpi dei performers in stretta relazione a quelli degli spettatori in fuga per non farsi sporcare ma gli urti sono spesso inevitabili e alcune delle ragazze in azione, vere e proprie cyber-amazzoni, non esitano a toccare (altre donne però) e qualcuna (stretta al fidanzato allucinato) viene toccata un po’ di più. Terrore nelle altre. E scappano.
La Fura lo sa, lo fa da tempo, da quando con “Accions” assaltavano gli spettatori con mortaretti e vernici colorate (lavabili però). E’ il modo proprio della “feira” catalana, festa nel senso carnascialesco, se non dionisiaco, che la gente di Barcellona anche se in pieno 2000 non ha rimosso. Di questo temperamento in gioco la Fura fa teatro: un teatro che nasce più dentro, in quanto principio attivo, biochimico, direttamente connesso all’adrenalina dello spettatore coinvolto, che fuori: in un azione teatrale che si muove al di qua della drammaturgia. Un teatro al suo “grado zero” di ossessività, pervaso da sonorità elettroniche techno-trance che infondono un pathos apocalittico al primitivismo dell’azione;
Un gioco in cui ha senso solo il gioco dell’attore, inteso al livello-base, come un medium di un’energia rituale, ludica, libidinale e sacrificale al contempo .Solo che qui, in queste commedie furiose, in questi wodoo metropolitani, in queste orge dionisiache per tribù elettroniche, ha senso anche quello dello spettatore coinvolto in un gioco allucinato ed extraordinario.

Eventi come questi de La Fura sono occasioni per misurarsi con una spettacolarità-limite in grado di attrarre spettatori che il teatro difficilmente riesce ad intercettare.
E’ un punto, questo, sul quale vale spendere un’ulteriore riflessione. La sperimentazione teatrale in Italia è riuscita fino a qualche anno fa a produrre un immaginario condiviso da una generazione di spettatori disponibili a mettersi in gioco , a proiettarsi in particolari forme di narrazione e di visionarietà . Per anni si è mantenuto un “patto”, uno scambio di sensibilità, che ha fatto del teatro di ricerca una sorta di ecosistema culturale capace di soddisfare la voglia di aggregazione e di alterità (quel sentirsi “diversi”) espressa dalla generazione alla deriva degli anni Settanta. Quelle tensioni non potevano che estinguersi, come anche tutte le intemperanze ideologiche dell’Avanguardia.
Ora nei confronti della nuova generazione di spettatori il teatro, nella sua accezione più aperta possibile di “spazio-tempo da condividere”, si trova in difficoltà nel conquistare un’attenzione forte : non supera la soglia della scelta culturale predeterminata e autoreferenziale.
Qualche buon segnale c’è, alcune identità teatrali hanno la “vis” poetica e la capacità di coinvolgere le nuove generazioni in progettualità che vanno oltre quell’endogamia che purtroppo riguarda anche certe nuove formazioni.
Sono tempi difficili per il teatro che soffre d’arroccamento.
E poi il mass-media televisivo fa troppo rumore, copre tutto. Ma la Fura dels Baus gioca proprio su questo. Fa più rumore. Scaraventa il proprio volume di suono e azione secondo un principio che loro stessi rivendicano come “teatro d’impatto”. Occupano spazi enormi come i Palasport, o fabbriche in disuso (esprimendo, già anni fa, il clima eccentrico dei raves). Prendono spazi vuoti e li riempiono di evento, oltre che di pubblico. Un pubblico che, in buona parte, potrebbe essere riconoscibile come quello dei Centri Sociali, ma non è solo questo. Partecipare ad un evento della Fura è come andare a “scavalcare” per entrare gratis ad un concerto. E’ tutta finzione, tutta macchineria, certo. Ma quella piccola sensazione di rischiare, almeno un po’, riescono ancora a trasmettertela.
E’ solo un gioco, dopotutto. Un gioco che l’”homo ludens” sa che vale la pena giocare, tanto per tenersi in allenamento in un mondo in cui bisogna stare attenti a non essere giocati.

Carlo Infante (carlo@teatron.org)

purtroppo non è nei miei archivi il primo articolo uscito sul mensile Frigidaire nel 1983 a proposito de La Fura che allora girava con il violento “Accions” che non riuscii a far arrivare al Mattatoio di Roma, ma che vidi a Settimo Torinese …

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