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La crisi della democrazia rappresentativa (da performing media 1.1. Politica e poetica delle reti)

Ecco un estratto del mio ultimo libro (scritto nel 2005 e pubblicato nel marzo 2006) performing media 1.1. Politica e poetica delle reti.

E’ il passaggio che ha come titolo La crisi della democrazia rappresentativa. Un punto cardine, connesso alla prefazione di Beppe Grillo che coinvolsi allora per via dell’importanza strategica dei meet up, sostanziale infrastruttura partecipativa che, lievitando silenzioso nell’arco degli anni, ha determinato lo “tsunami intelligente” (per usare le parole della prefazione scritta da Grillo nel gennaio 2006. Già allora…).

Internet va considerato come un ambiente in cui i rapporti sociali di cui è intessuta stanno modellando l’ambiente stesso. La Rete non può essere considerata solo come uno strumento di comunicazione. E’ anzi il contesto ideale in cui ridefinire il concetto di comunicazione, superando il conflitto tra oralità e scrittura e creando altre condizioni, come quelle ipertestuali e interattive, basate sulla produzione diretta e non solo sul consumo d’informazione.

E’ qui che è possibile intravedere una via d’uscita allo stallo in cui la società di massa si sta cacciando, iniziando proprio dall’epicentro della sua crisi terminale: il mass-media televisivo ormai insostenibile nella sua chiassosa autoreferenzialità.

Per quanto possa essere malinconico ammetterlo, va detto che i luoghi del dibattito politico sono sempre meno i parlamenti e i partiti. La loro funzione sembra assolta dai salotti televisivi, allestiti come teatrini di una politica ridotta ad un canovaccio di commedia dell’arte di maniera, con le solite maschere.

La partita sembra essere giocata solo dai gruppi editoriali che tendono a spartirsi consensi e profitti tra i diversi media e le loro concessionarie pubblicitarie.

Ma sappiamo che così non può andare avanti a lungo.

Senza essere troppo ottimisti intravediamo la soluzione d’emancipazione da questa palude nell’insorgere di azioni virtuose, che non è così improprio definire lobbistiche (nel senso migliore del termine), attraverso cui prendono forma delle opinioni che nella Rete, con i blog in primo luogo, si fanno sentire. Rompendo lo stallo. Non è solo un atto di principio ma si tratta, come direbbe Manuel Castells, di “ricchezza informazionale”: quella capace di fare da volano allo sviluppo di un sistema economico e sociale innovativo, che creda nel sistema a rete.

C’è una “classe creativa”, come la definisce Richard Florida, che sta lavorando da anni in Internet per rendere possibile un concetto altrimenti astratto come Società della Conoscenza, creando una catena del valore che vede coinvolti cittadini, imprese e attività istituzionali d’ampio respiro.

E’ un dato che sta dimostrando come le classi sociali, centrate sul modello produttivo industriale, stiano svanendo, disintegrandosi nella vaghezza della società terziaria dei servizi e nella frammentarietà dell’individualismo di un lavoro atipico in cui fervono il precariato e una flessibilità senza scrupoli.

Forse non è neanche il caso d’usare il temine “classe”, visto che questa condizione sociale emergente vive nella molteplicità molecolare: le innumerevoli molecole di una società disseminata nell’indeterminatezza professionale, in cui i ruoli non stanno fermi, stampati come una volta nel quadro “molare” della società classista basata sul patto tra capitale e lavoro. I ruoli si rinegoziano, amplificando il valore della sperimentazione sull’asse competenza-conoscenza, nella ricerca di nuove risposte alle necessità di ambientamento sociale.

 Web 2.0

In questo cambiamento di contesto la rappresentanza politica tradizionale si trova in estrema difficoltà, a tal punto da interrogarsi sulla condizione di crisi di un sistema democratico che non sa più rappresentarsi nella politica predefinita. In parallelo a questa crisi di un modello di società sta crescendo un nuovo ed inedito sistema di relazioni in cui affermare nuove istanze. Quali?

Quella di estendere il diritto di cittadinanza e di pari opportunità per quanto riguarda l’accesso alle reti, soprattutto. Riconoscere all’informazione, magari quella realmente destinata alla funzione pubblica, la valenza di bene comune, diffuso e trasparente. Offrire garanzie per la tutela dei dati personali e della privacy in generale. Promuovere la migliore interazione possibile  fra governanti e cittadini per rilanciare il significato di partecipazione alla “res” pubblica, oltre le ritualità stanche di elezioni o referendum (spesso bloccati dall’inibizione dei quorum) e utilizzando, ad esempio, blog e forum come piattaforme partecipative.

Sono argomenti di una ragionevolezza inappuntabile che, dieci anni dopo la Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio di John Perry Barlow ( il “dissidente cognitivo” della Electronic Frontier Foundation, già autore testi dei Grateful Dead >FORUM), traducono in buone pratiche alcune sue (e di tanti altri pionieri della prima ondata, in cui rientra anche il sottoscritto) affermazioni che suonavano come sentenze utopiche: “Noi creeremo nel Cyberspazio una civiltà della Mente. Possa essa essere più umana e giusta di quel mondo che i vostri governi hanno costruito finora”. Oggi quel nodo arriva al pettine. Sta accadendo qualcosa, nonostante tutte le sperequazioni prodotte dalla new economy, con le sue iperboli editoriali di portali e portalini. Nonostante le logiche di controllo più o meno subdole, con spyware mimetizzati nelle tracce dei CD musicali per spiare i nostri hard-disk e cookie nel web (>FORUM) e tutte le intimidazioni paranoiche del diritto di proprietà intellettuale sul file-sharing, che di fatto esprime una delle sperimentazioni più interessanti sul valore d’uso della Rete, per il baratto e la condivisione d’informazioni e artefatti.

Sta accadendo più che altro sull’onda dei blog, del personal publishing e del social tagging, in una fase di rifondazione del web. Tant’è che si sta parlando ora ( ti ricordo che questo testo è dell’autunno 2005!) di Web 2.0  che è altra cosa dalla controversa Internet2 superveloce e supercontrollata, come sostengono Tim O’Reilly e Howard Rheingold. In particolare quest’ultimo, che con la sua teoria sulle smart mob ha inquadrato il contesto alla luce del dato più interessante: l’interazione stretta tra Rete e territorio attraverso l’azione dei cittadini connessi via wireless. Non a caso Wi Fi è una delle parole d’ordine più incalzanti di questo libro.

Il reputation capital

E’ in questo ragionamento che va collocata un’intuizione fenomenale di Derrick de Kerckhove, emersa in un brainstorming che ho curato a Cagliari per il progetto Mondi Attivi (>FORUM).

Si tratta del reputation capital, ovvero di quel valore di reputazione personale che ciascuno di noi porta nella Rete attraverso i personal publishing, nei forum e nei blog. La Rete sta trovando nei blog la sua sostanziale infrastruttura (Technorati ne ha contati 40 milioni >FORUM) grazie al fatto che i netizen (net e citizen: i cittadini della Rete) tendono a produrre informazione in prima persona, basandosi su esperienze dirette e soggettive. 

La cosiddetta “blogsfera” può così funzionare come una sorta di neodoxa, come sostiene Carlo Formenti (>FORUM), facendosi ideale contesto dell’opinione diffusa che, per quanto non certificabile, acquista attendibilità sulla base del reputation capital di chi interviene.

Inizia ad acquistare connotati più precisi quel concetto di ricchezza informazionale di cui si trattava prima.

Se si pensa poi che il reputation capital è un termine utilizzato per il mondo delle imprese nella fase delicata della loro quotazione in borsa, è ancora più emblematico il fatto di tradurlo in un ambito non tradizionalmente economicistico.

Eppure è proprio di questo che si tratta: il riconoscimento preciso dell’intangibilità del valore cognitivo come fattore di una nuova economia basata sullo scambio di conoscenza e di responsabilità personale.

In questo paradosso risiede uno dei fattori più scardinanti della politica, e della poetica della comunicazione personalizzata. Poetica perché concerne i modi propri di questo nuovo linguaggio che sta creando l’ambiente stesso in cui espandersi.

E’ quindi possibile un’altra economia, basata sulla politica e poetica delle reti, a partire dalla cooperazione e dal continuo scambio di informazioni referenziate dalle soggettività dei protagonisti, in cui anche la competizione meritocratica sprigiona valore. Come accade nelle comunità hacker, gli “smanettoni” del computer e delle reti, che in questi anni hanno esplorato il cyberspazio sperimentando socialità, nel senso più forte ed etico del termine. E’ ciò che accade nelle comunità open source, dove gli sviluppatori del software libero, non proprietario (come nel caso di Linux), hanno tracciato la pista da seguire.

Con questi software l’utente ha l’accesso al codice sorgente (source) e può quindi implementare, migliorare, il prodotto aperto (open) per destinarlo ad ulteriori applicazioni, magari non previste dagli sviluppatori stessi.

Secondo la Teoria dei Giochi (>FORUM) si può affermare che il fenomeno open source alimenta il gioco di coordinazione (coordination game), creando situazioni nelle quali ciascuno tende a pensare il modello di comportamento degli altri, piuttosto che essere il solo a  fruire dell’applicazione.

E’ l’etica dell’interattività, finalmente concepita come una poetica che parte dall’esercizio dello specifico linguaggio per proiettarsi nel contesto di una relazione aperta, collaborativa, sociale.

Come in una performance in cui a essere “performanti” sono i media stessi, “giocati” da utenti consapevoli e creativi.

In questo rapporto simbiotico tra uomini e media c’è l’opportunità da giocare, liberando risorse psicologiche che danno senso alla ricchezza informazionale inscritta nell’individuo che fa della comunicazione un atto di interrelazionesociale, centrato più su disponibilità e cooperazione che su forza e gerarchie organizzative.

 

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